23.4.06

 

Vito Riviello. E arrivò il giorno della prassi 

[Narrativa -1]

(...)
E arrivò il giorno della prassi, i professori si costituirono in Corpo Accademico e quindi in Confraprofessori, il Preside in pompa grande li passò in rivista e fece il saluto della bandiera, la milizia e i corpi speciali lanciarono un urrà unisono, squadriglie di caccia punteggiavano l'empireo, viva il re o di chi ne fa le feci.
In nome della patria augurò anche a nome del capo dello stato e dl procuratore alla cultura e inaugurò un anno d'ordine e tranquillità non contemplando eventuali disastri naturali indipendenti dalla loro volontà e comunque leniti da coercenti sottoscrizioni tricolori. I professori iniziarono i giorni delle spiegazioni, dividendo compartimentalmente i programmi e dissociando le discipline, operando una grossa lacerazione puritana tra materie scientifiche e letterarie, poi disinvolte separazioni tra spirito e materia, anima e corpo, uomo e donna.
Se il guardiano di italiano si situava nel Duecento quello di filosofia indagava sui presocratici, in biologia si era la diciannovesimo secolo e in arte al distacco contemplativo di una colonna sparita a causa di una imprecisata ribellione achea, i secoli erano stati sciolti come cani mastini dai signori del feudo, si azzannavano, gettavano il panico anche tra noi che scientificamente rifuggivamo dal campo minato delle nozioni. I professori andavano così predisponendo il terreno per una dittatura inequivocabile, fatta di codificate illusioni e presunte certezze semantiche.
"L'io", "idola tribus", "i binomi", "deduzione", "ei ei fu alalà" e altre mille "monadi" fiorirono come fiori del bene dalla bocca verace dei Costituiti e si rovescaiavano sui registri, sui banchi, sui nostri "pullover" innocenti come in fotografia.
A volte declamavano perfino bibliografie ministeriali, urlavano circolari, barrivano versi che dalla loro bellezza libera si piegavano inceneriti per la ripugnanza di entrare inopinatamente in tenere memorie che umiliate non tenevano a mente che la paura filologica. Le ormai prossime interrogazioni avrebbero maturato la superiorità della Confraprofessori, allora ci sarebbe stata visibile la violenza del sistema, la nostra vita sarebbe apparsa in un casellario elettronico, valutata dagli strumenti ciechi del potere in cifre presuntuosamente inappellabili; i guardiani di classe avrebbero acceso o spento la nostra collocazione sotto l'arco della storia su di un quadrante che al Reggente sarebbe apparso come il teatro morale di operazioni definitorie. (...)

da E arrivò il giorno della prassi - Vito Riviello
(Collana Euforbia diretta da Giorgio Patrizi)
Ed. Empiria, Roma 1999
(disegno di Rocco Grieco)

VITO RIVIELLO è nato a Potenza nel 1933 e vive a Roma. Il racconto "E arrivò il giorno della prassi" ha un taglio autobiografico e generazionale, ed è ambientato nella Potenza degli anni 50/60, dove un gruppo di giovanissimi studenti lotta contro il sistema cittadino piccolo-borghese. Una satira ironica e tragicomica sul mondo dei padri che si traduce in azione diretta e concreta all'interno della scuola, dove i professori sono costituiti in Corpo Accademico e Confraprofessori, attori tristissimi di un ambiente rigorosamente chiuso, repressivo e impassibile. Riviello ne descrive minuziosamente tutti i rituali e le sue farse quotidiane, l’incapacità di dialogare, di modificarsi, di essere autorevole. Soprattutto ne decreta la sconfitta e la crisi nel momento in cui "la resistenza" della Confraprofessori ricorre come azione coercitiva a un durissimo e accanito “interrogatorio” che sfocerà nella bocciatura finale del gruppo.
by Maria Pina Ciancio
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13.4.06

 

Rocco Scotellaro. Poesie 1940-1953 

[poesia -4]

Campagna

Passeggiano i cieli sulla terra
e le nostre curve ombre
una nube lontano ci trascina.
Allora la morte è vicina
il vento tuona giù per le vallate
il pastore sente annate
precipitare nel tramonto
e il belato rotondo nelle frasche.
(1948)


***

La luna piena

La luna piena riempie i nostri letti,
camminano i muli a dolci ferri
e i cani rosicchiano gli ossi.

Si sente l’asina nel sottoscala,
i suoi brividi, il suo raschiare.
In un altro sottoscala
dorme mia madre da sessant’anni.
(1947)


***


Il morto

Non voglia mai far notte, mai far giorno,
è venuto di piombo il pane al forno.
Cicala canta la canzone spasa,
il tizzone si è spento nella casa.
S’alzano i gridi ringhiera:
Giustizia nera, Giustizia nera.
(1951)


***


Calore

Alberi spiccano dissotterrati
dalla roccia sotto il cielo di fuoco.
Ed ammassa polvere sul verde
questo vento calmo.
Né so altro cigolio
né vedo corruccio palese
se non che si denuda l’uomo
supino che gronda sudore.
(1942)

***

Guarigione

L’aria s’è sminuzzata
cadendo l’acquazzone
le strade si sono abbeverate.
Sentito mi sono oppresso
D’una vibrante cordata sul cuore.
E poi m’hanno chiesto in viso se guarivo
coi fiori del vaso sul balcone.
(1943)

***

Appunti per una litania

Sud è il mio amore, sono gli aratori,
nell’ombra delle quercie o sulle aie,
dormono legate alle cavezze
delle cavalle baie.
Hanno la faccia bruciata
una crosta di pane.

E donne salgono pendii
si stringono i figli nel vento,
vanno cercando piene di sgomento
l’uomo che può non ritornare.
[…]

i versi tratti da Rocco Scotellaro - Tutte le poesie 1940-1953
Oscar Mondadori 2004
(disegno di Rocco Grieco)


ROCCO SCOTELLARO nacque a Tricarico nel 1923, e lì morì a soli trent'anni. Poeta colto e raffinato riuscì nell’arduo tentativo di far convivere in modo coeso e vivace la ricerca di una poetica esistenziale con l’azione politica, come conseguenza naturale della partecipazione alle lotte contadine svoltesi nel suo paese quando egli era ancora adolescente. La disgrazia della miseria invase alla radice il suo pensiero traducendosi in vigore umano, attraverso una soluzione letteraria giovane eppure autonoma e attraverso l’adesione al socialismo prima e alla sua elezione a sindaco a soli 23 anni dopo. Una voce drammatica, aspra e vigorosa come questa terra quella di Scotellaro, che si risolve in un paradosso di semplicità poetica e di intuizione innovativa, tanto da essere oggi considerato “maestro” del neorealismo in poesia. Un verso pietroso e surreale, essenziale e visionario, che emancipato dal suo tempo sa essere attuale e antiretorico, futuribile e contemporaneo come un pensiero sotteso e costante sull’eternità.

by Maria Luigia Iannotti
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9.4.06

 

Andrea Di Consoli. Discoteca 

[poesia -3]

I
Quanta rabbia in noi
Quanta voglia di piangere
Adesso che pure in questa discoteca
Affollata del sud Italia
Stiamo tutti insieme
Come ritrovati dopo una lunga diaspora
Quanta voglia di piangere e quanta rabbia
Ma non c’è nessuno al mondo
A cui possa interessare tutta questa rabbia
E tutta questa malinconia.

II
Ti trovo quasi finita nel tuo silenzio

Mi dici di essere disoccupata
Che mandi domande ai concorsi statali

Non ci vuole molto a riconquistare confidenza
Come quando eravamo impastati dello stesso tempo
E gli umori erano gli stessi per tutti

Faccio fatica a parlarti nell’orecchio
La musica è sempre più rabbiosa
Abbiamo fatto un giro immenso
Per essere al punto di partenza.

III
Tutti credono che il mondo aggiunga sorrisi

Ma il mio è un ghigno disincantato
Pure adesso che qualcuno mi vede bere
Una fila di cognac Stock 84
A questo balcone di bar interno
Ignora il dolore profondo che mi spinge a farlo
L’unica cosa che riesce a dire è

"Tu non puoi lamentarti, tu te ne sei andato in tempo"

IV
Essermene andato in tempo
Significa occhio e croce che mi sono salvato
Ma da cosa mi sono salvato?
Alla fine partire è solo un modo per sentirsi straniero due volte.
Eppure questi amici me li sento dentro
Perché nel bene e nel male
Sono gli unici esseri della terra
Che hanno voglia di piangere
Quando io pure ho voglia di piangere.

V
Alla fine è l’alba
Nella nebbia del parcheggio
Mi viene male alla pancia
E allora ripenso a quando un tempo
A casa trovavo la furia di mio padre
Impegnato a impastare con le sue mani
Un uomo che non sfigurasse davanti al mondo.

VI
Oggi devo dare conto solo a me stesso
Del grande gelo di questa notte.

i Versi tratti da "Discoteca" di Andrea Di Consoli
(Collana diretta da Michele Trecca e Andrea Di Consoli)
Ed. Palomar, Bari 2003


ANDREA DI CONSOLI è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani e attualmente vive a Roma. Discoteca è la sua prima esperienza in versi, una originale perlustrazione in orizzontale della realtà. La sua scrittura è diretta e dai toni prosastici, a tratti febbrile, ma sempre spontanea e vera, mai scontata, mai di compromesso. Dai suoi versi emerge rabbia e malinconia giovanile, sogni e desideri, bisogno di fare i conti con la memoria, il proprio senso di responsabilità, la propria storia personale, quella di chi è partito e per questo si sente “straniero due volte”. Discoteca è un libro fatto di incontri, di dialoghi, di dubbi, di domande e di possibili risposte. Un libro a tinte forti insomma, popolato e in movimento che si dipana tra paesi, discoteche, autostrade, quartieri di città, che dall’inferno preclude alla rinascita, dalla rabbia alla preghiera.

by Maria Pina Ciancio

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3.4.06

 

Francesco Arleo. Scappa 

[poesia -2]


N
on ho ombra di quel passato. La luna stava alla finestra e qualche volta la chiudevo in una mano ma sapevo di non possederla.


La frutta migliore della terra era stesa sul pagliaio di fronte casa.
Lì, seccavano trecce di fichi col miele e un seme di mennula in mezzo.
Nei colpi del buio uno stormo di lucine metteva voglia di arrampicarsi.
Su un ginepro. Era l’appuntamento con le pleiadi. Il carro della fortuna.

Quello che lasciavo erano facce di vecchi nell’orto.
Si resta e si muore, si parte e si muore comunque.

[…] Ricordare, vuol dire perdonarsi anche quello che non si è commesso, magari il pane che non si è avuto o il male che non si è fatto. Era il nostro tempo, la stagione più matura, quella più canterina. Il grano era uguale da tutte le parti e cadeva, cadevano intere distese come cadevano le sere. Ci sorprendeva la luna. Ci prendevamo il nostro riposo nei cavalloni di grano.

[…] Mi aspetta un paese di calanchi dove dormono ancora i poeti e le loro madri, i diavoli e gli ulivi, dove un giorno le capre leccavano il sale della terra e ogni solco era nervo sul viso dei vecchi.

i Biglietti tratti da Scappa di Francesco Arleo
Officine Beati i Secondi (r) & Alexandra Editrice, Roma 2004


FRANCESCO ARLEO (E' nato a Chiaromonte nel 1974 e vive a Roma) Versi che sanno di grano e di partenza. Storie di fughe necessarie e utili. Viaggi nella memoria persuasi di dimenticare ricordando. I biglietti di Francesco Arleo sono graffi che tagliano la pellicola del diniego e si fanno coscienza amara di ieri e di oggi. Versi in prosa poetica dove la terra lucana asciutta e materna a tratti s’impone gravosa, in altri reagisce nel taglio di parola compatta e coraggiosa, nell’inquietudine che l’attraversa e in altri ancora la si vede guadare concreta e reale nei profumi, nella tradizione, nei gesti che come vene sparse in corpo si legano all’origine e alla vita…
by Maria Luigia Iannotti

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