1.3.08

 

Avviso ai lettori di LucaniArt 

Il nuovo LucaniArt Magazine



Carissimi amici e lettori di LucaniArt, nuove esigenze tecniche e necessità di dare maggiore respiro ed apertura al blog, hanno fatto nascere negli ultimi mesi la necessità di realizzare un nuovo spazio web più agevole, leggibile e snello nella struttura e nella consultazione. E' nato così da qualche settimana LucaniArt Magazine (il bollettino interno dell'Associazione Culturale) che vi invito a visitare all'indirizzo http://lucaniart.wordpress.com.
Siete tutti invitati a partecipare con vostri scritti, ma anche con proposte di recensioni, riflessioni, interviste e segnalazioni di eventi.
"LucaniArt" resterà on-line e sarà aggiornato nelle sezioni che lo compongono.
Vi ringrazio tutti per la lettura, il sostegno e la costanza della vostra presenza.
Un cordiale saluto
Maria Pina

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23.2.08

 

Rosa Maria Fusco. I corpi e le parole 

[poesia -42]



T
utto quello in cui affogo
stagioni di rabbia di torrenti di ciliegi e poi stanze
come celle monache e madri di guardia al tuo corpo
le ragazze ridono forte raccontando barzellette sconce
nei dormitori accendono cerini colori forti sulle labbra
di sotto la persiana una striscia di cielo
nuvolo coperto schiaccia il viso
........................................ora l'autunno l'erba intrisa
a ruota le quaglie la vendemmia i cacciatori
la sorpresa di scoprirtoi nuda -è una vergogna-
dice la suora -la ragazza guarda attorno
in cerca di un balcone

***

Ci sono contrade dove la violenza
non costa nulla neanche il sangue di un cane vecchio
sparato a Sant'Anna... ci sono posti dove si muore
a poco a poco per eccesso di pudore di saggezza
per difetto di follia... ospedali ospizi case di cura
per malati mentali istituti per bambini scemi
dove si mettono quelli che hanno la testa
grossa e l'equilibrio incerto
...........................................sicchè basta un niente
e il mondo li rovescia faccia a terra

***

Già ci legano la collo la pieta
la corrente fa risucchio -ambigue
le possibili parole-
..............................il silenzio
che ci stringe
è passione che si addensa rabbia
sgomento grumo di vita
corpo sull'asfalto

8 da I corpi e le parole di Rosa Maria Fusco
Quaderni di Messapo, Siena 1980

ROSA MARIA FUSCO è nata a Matera il 15 giugno 1953 e vive a Tursi dove insegna. Si è laureata con un vasto saggio di ricognizione sociologica su "La politica delle donne: i percorsi del neofemminismo in Italia". Poetessa, scrittrice, saggista e critico letterario, è presente in numerose antologie italiane e straniere. Ha collaborato a "Salvo Imprevisti", "Lotta continua", "Fronte popolare", "Collettivo R", "Dimensione", "Duepiù", "Nodi", "Perimetro", "Stazione di posta". Operatrice culturale, numerose sono le sue partecipazioni a trasmissioni radiofoniche e televisive, sia come ospite sia come ideatrice e conduttrice di programmi. Appassionata d'arte moderna, organizza e presenta mostre di pittura; ha pubblicato numerose cartelle d'arte e la sua produzione poetica ha suggerito a vari artisti originali interpretazioni visive. Tra i suoi libri editi figurano tre sillogi di poesia e un romanzo: "I corpi e le parole", Centro di iniziativa culturale Messapo, Siena, 1980; "La luna delle ciliege", Collettivo R, Firenze, 1985; "Arcana/mente", ed. Libria, Melfi, 1990; "Iris & Peonie", Polistampa Editrice, Firenze, 1996.
by Maria Pina Ciancio

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30.1.08

 

Carlo Levi. Lettere alla madre 

[Narrativa -13]

Grassano, 7 settembre 1935
"Cara Mamma mia,
ho finito in questo momento di dipingere una piccola natura morta, e mentre la riguardo, ti scrivo. Sono i soliti frutti, così familiari, identici a quelli di costì: qualche fico bianco, rosa nell’interno, uva bianca, uva nera, e grandi foglie verdi di fico. Ma come il colore è più contenuto e modesto di quello che mi era abituale! Un digradare di terre giallastre e grigie ricorda il paesaggio di qui, e lo svolgersi dei colli, indefinitamente coperti di paglia arida e di radi e bassi ulivi. Capisco adesso la straordinaria libertà e ricchezza del colore di Alassio, dove l’azzurro più intenso fa parer rosati gli ulivi bianchi e i violetti delle pietre e i gialli e i rossi delle rocce son rivelati dal verde bluastro dei carrubi, e le palme si alzano tra i fiori come allegri pennacchi. Qui nessun contrasto interrompe l’orizzonte sempre uguale, e il seguirsi di campi e delle valli, a perdita d’occhio. Umili sono i colori di questa terra che anche Virgilio e Dante hanno chiamato così: e proprio in questa umiltà è la sua bellezza: ho dipinto ieri il primo paesaggio grassanese, una distesa di colline e di campi bianco-giallastri, con radi alberi grigi, e le prime case bianche e grigie del paese. Mi pare di averne reso abbastanza bene il carattere, e mi sono servito di una gamma di colori per me inusitata e che vi stupirebbe, che va dal giallo al violetto, senza conoscere né l’azzurro né il rosa. Tutto quello che manca di colore durante il giorno, si ha invece al tramonto, che è infuocato e splendido: ma dura pochi minuti, e subito arriva la notte. Non ci sono quei lunghi crepuscoli che piacevano a Leonardo, e che io adoperavo per dipingere fino a buio.
Tanti cari saluti e baci a tutti
Carlo
Lettera di Carlo Levi alla madre
(Torino, Archivio della famiglia Levi)
nella foto in alto - Danilo Dolci e Carlo Levi

CARLO LEVI (Torino, 29 novembre 1902 – Roma, 4 gennaio 1975) Quando penso a Levi, penso alla Lucania. Penso alle lettere. Non al Cristo, non ai dipinti del confino, ma alle lettere. A quelle bellissime lettere-documento che raccontano l’uomo Levi e il suo modo di stare nella vita. L’animo sensibile e gentile del medico-scrittore torinese che nel ‘35 approda, esiliato politico, in un Sud lontano, arcaico e sconosciuto, ricco di umanità e colori sottesi. Cara madre… Cara Luisa… e poi quel tono pacato, carezzevole, aperto che contraddistingue le lettere, la pittura, il romanzo. Uno sguardo di cura e attenzione per l'altro, la terra e lo straordinario svelarsi dei luoghi e delle cose.
by Maria Pina Ciancio

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5.1.08

 

Romanzi e racconti della memoria e della cultura popolare 

[narrativa -12]

foto Francesca Zito, 2004

«Un classico è un libro che non ha mai finito
di dire quel che ha da dire»
(I. Calvino, Perché leggere i classici
)

Alcuni libri sono da leggere e da rileggere. Alcuni titoli non dovrebbero mancare tra gli scaffali delle nostre biblioteche. Alcuni classici racchiudono da sempre il fascino del tempo, dei luoghi e della storia.
Testimonianze uniche. Documenti preziosi.
Memorie di un'Italia che cambia, tra '800 e '900.
Ecco alcuni titoli. Solo alcuni però, altre segnalazioni o semplici riflessioni ci piacerebbe accoglierle tra i commenti.
I Malavoglia di Giovanni Verga (uno spaccato delle campagne siciliane attraverso le parole del maestro del Verismo); Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (la cronaca del confino in Basilicata tra il '35-36 dello scrittore e pittore torinese); Vino e pane di Ignazio Silone (una continuazione ideale di Fontamara, il racconto di Pietro Spina, un rivoluzionario braccato dal fascismo e il ritorno a Marsica, che fa da sfondo con la sua agricoltura povera e i suoi contadini alle vicissitudini del protagonista); Canne al vento di Grazia Deledda (una intensa storia d'amore ambientata nella terra d'origine della scrittrice, la Sardegna); Fontamara di Ignazio Silone (le cui vicende si snodano durante i primi anni della dittatura fascista a Fontamara, tra una realtà sociale fatta di cafoni -braccianti, manovali- e piccoli proprietari terrieri); Di viole e liquirizia di Nico Orengo (ambientato nelle Langhe, dove "il vino è come il petrolio" ed ognuno punta a far meglio dell'altro); Vino al vino di Mario Soldati (un indimenticabile viaggio nelle campagne italiane degli anni '60).

Senza commenti. Solo l'incipit del Cristo.

"Sono arrivato a Galiano un pomeriggio di agosto, portato in una piccola automobile sgangherata. Avevo la mani impedite, ed ero accompagnato da due robusti rappresentanti dello stato, dalle bande rosse ai pantaloni e dalle facce inespressive. Ci venivo malvolentieri, preparato a veder tutto brutto, perchè avevo dovuto lasciare, per ordine improvviso, Grassano, dove abitavo prima, e dove avevo imparato a conoscere la Lucania. Era stato faticoso dapprincipio. Grassano, come tutti i paesi di qui, è bianco in cima da un alto colle desolato, come una piccola Gerusalemme immaginaria nella solitudine di un deserto".
(da Il Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi, prima edizione 1945)

by Maria Pina Ciancio

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22.12.07

 

Maria Pina Ciancio. Intermittenze colorate oltre 

[poesia -41]



Il Natale anche così…


Si riflettono sui vetri gli addobbi colorati
e le stelle intermittenti di Natale.

Dentro è buio

Nella stanza una vecchia senza nome
culla tra le braccia una bambola di pezza
e un sogno ................appeso da vent’anni
al chiodo del camino

Tutto passa e accade............come sempre
come ogni sera
la mollica masticata sulla panca
il fuoco che si abbassa
il fazzoletto largo stretto in testa
la vita che si arrende al sonno.........e trema

Dentro è buio

Resta l’intermittenza
e le stelle colorate oltre i vetri

oltre

(novembre 2007)

da A.A.V.V. Nella notte di Natale. Racconti e poesie sotto l'albero
(Collana l'Antologica), Giulio Perrone Editore 2007
ISBN 978-88-6004-122-7, p. 218, 15.00 euro

(disegno di Rocco Grieco)

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10.12.07

 

Gli auguri della Redazione di LucaniArt 

[Natale -2007]

..........................................(disegno -Rocco Grieco)

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20.11.07

 

Albino Pierro. Si pó' nu jurne 

[poesia -40]

"Tegne nu dulore ca nun mi làssete / com'a lu core i zanne di nu lupe"

Nda st'alligrizze

E mi vròscete ‘a uìje di ci murì
nda st’alligrizze.
Po’, com’a chi nd’u sonne si cattùgghiete,
cante:

“Ah si ni putéra lassè
pittate supr’ ‘a facce ma cchisèmpe
u ‘ampe di na rise
a stu munne ca chiàngete
nun sacce si nd’i scaffe
o nd’i carizze”

In questa allegrezza // E mi brucia la voglia di morirci/ in questa allegrezza. /Poi, come chi nel sonno si solletica,/ canto// “Ah se glielo potessi lasciare/ dipinto sulla faccia ma per sempre/ il lampo di un sorriso/ a questo mondo che piange/ non so se tra gli schiaffi/ o le carezze”.
(p. 75)

*

Ti spàrtete u ‘ampe

Cchiù la sentese nfunne
‘a uìje di i’èsse bbòne
cchiù ti spàrtete u ‘ampe.

E si’ terra vruscète
e si’ nd’u verne
nda tanta partajalle
ca duce pó’ nd’i frunne ci s’arrànzene,
si lle vàsete u sóue,
cchi lle fè d’óore u campe.

Ti spacca il lampo // Più nel profondo la senti/ la voglia d’essere buono/ più il lampo ti spacca.// E sei terra bruciata/ e sei nell’inverno/ tra tante arance/ che lievi tra le foglie poi s’affacciano,/ se le bacia il sole,/ per farlo d’oro il campo.
(p. 76)

*

Carcirète

Pure si vire u sóue
o ll’ate cose cchù belle,
si ci ni su;
pure si mi ci appende
ma cc’u pinzare a na stella
can un c’è cchiù,
ié mi sente sempe nu carcirète
can un pó gghiì cchiù allè
di na nfirrìete

Carcerato // Anche se vedo il sole/ o le altre cose più belle, / se ce ne sono; / anche se mi ci appendo/ ma col pensiero a una stella/ che non c’è più, / io mi sento sempre un carcerato/ che non può andare più in là/ di un’inferriata.
(p. 79)

da "Nu Jurne" di Albino Pierro
Poesie in dialetto lucano di Tursi
Gruppo Editoriale Forma, Torino 1983
(disegno di Rocco Grieco)

ALBINO PIERRO (Tursi, 1916-1995) Sti mascre è una silloge di 23 componimenti poetici che fa parte insieme ai Poemetti e a Si pó' nu Jurno, di un unico volumetto antologico, con un'originale intoduzione dal taglio di intervista/conversazione di Tullio De Mauro, che quando uscì da casa del poeta, con un fascio di appunti, qualche lettera e una registrazione informale, disse: "Riuscirò a mettere nero su bianco quello che Albino ha detto, a restituire alla scrittura la sua voce calda e grave, la pensosa voce meridionale di Albino?" E ci riuscì bene il professor De Mauro, così come riuscì il poeta tursitano a restituirci la forza, la debolezza e le contraddizioni di questa terra di Lucania selvaggia, misteriosa e arcaica. Ritornano nelle poesie di Si mascre i temi cari a Pierro, quelli che hanno fatto di lui un punto di riferimento importante della poesia contemporanea in Italia e all'estero. Sono versi che vivono di un'atmosfera magica e tragica al tempo stesso, sospesi tra realtà e sogno, attraversati dal filo rosso dell'amore, dell'infanzia perduta, della lontananza e del ricordo, tagliati in due da quel dolore esistenziale "urlante" che da sempre accompagna e lacera la vita dell'uomo devoto alla verità del segno e alla parola "Tegne nu dulore ca nun mi làssete / com'a lu core i zanne di nu lupe".

by Maria Pina Ciancio

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25.10.07

 

Domenico Brancale. L'ossario del sole 

[poesia -39]


"Non sarò mai al sicuro dentro la parola"


Non oso pensare
alla foglia che stride nelle ossa

dove sei

ancora una volta sei
il reggimento della mia impazienza
il fuoco della lingua
che veglia sul nostro accordo

tutto può essere

noi siamo la nostra mancanza
(p.123)
*
Niente più lamenti
nè gridi che raspano
la gola dei rimorsi

sentire che possono accadere le cose

Assolve le carni
questo abisso di sole in agguato
(p.74)


*

Non siamo che cuore nell’intimo
e non mi stanco di ripeterlo
anche se in un sussulto
mi copre le palpebre
lo straccio del buio

Sempre nelle mani ho stretto forte
il fascio di canne
tremanti nella fiamma
e ci sono sceso fin giù
nel dirupo che addomestica
i volti duri nella piena
di questa pietra
(p.102)

versi tratti da "L’ossario del sole" di Domenico Brancale
con una nota di Michele Ranchetti
Collana fondata da Mario Luzi, Passigli Poesia, 2007
(foto di M.P. Ciancio -lettura di Domenico Brancale - Rionero in Vulture, 18-08-07)

DOMENICO BRANCALE (è nato a Sant’Arcangelo nel 1976 e vive a Bologna). Queste nuove poesie di Domenico Brancale vivono nel solco della continuità e dell’autenticità. Sono lame affilate che tagliano in un unico gesto un silenzio contratto e supremo. Quasi un grido. In un presente dove, ogni passato momento diventa un eterno momento, presente e assoluto, sotto una luce diretta e spietata che acceca “un sole piantato nel cranio/ avvampa le ali/ pure del destino”. Uno spazio aperto e metaforico sull’ossario del sole, sulla traccia di un’assenza “Nel mortaio di pietra/ rimani tu/ in fondo ancora un nome/ da pestare a sangue”.
Una poesia dal verso breve, solido e intenso dentro “i pugni stretti”, che si apre su un dolore assoluto che ingloba ogni cosa e non lascia spazi e fessure alla luce. Eppure non si può non amare la bellezza e l’incandescenza di questi versi intarsiati di pieni e vuoti, di italiano e dialetto, che ardono di pathos, che stanno dentro la vita con tutta la loro bellezza tragica e disperata. In un equilibrio perfetto, prima dell’oltre.
Leggi altre poesie di Domenico Brancale su Pillole (di)versi.

by Maria Pina Ciancio

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3.10.07

 

Andrea Di Consoli. "lago negro" 

[narrativa -11]

(brani tratti dal racconto "Shakespear")

Non so perché quest’estate facesse così caldo. Ad Aversa presi un espresso e mi diressi verso Lecce. Tiravo fuori la testa dal finestrino e sentivo l’aria calda. C’era solo questo a fasciarmi la fronte: aria calda, vertigine dalla mattina alla sera.
Nelle cuffiette ascoltavo Don Pizzica. E avevo caldo.
Quando ho i capelli lunghi, sudo di più; faccio le dita a spazzola e mi pettino i capelli all’indietro. Poi scopro che sono inzuppato alla schiena, all’inguine, al collo.
Quest’estate ci fu la presa d’atto. Mia e dei miei amici.
Abbiamo scoperto, quell’estate che stavamo imparando a capire il mondo. Tutto questo non succede mai in anni, in decenni, ma in mesi, settimane.
Era estate e imparammo che c’era un meccanismo preciso, e pure che c’era soluzione ai più grandi problemi del mondo.
C’era nostalgia, che certe notti si risolveva in pianto. Io piango così: all’improvviso sento un nodo alla gola, poi mi bruciano gli occhi e la pupilla si allarga. Ma le lacrime non scendono sulle guance. Non ho mai saputo perché non piango completamente, come le donne [...]
(p.7)

*

Certe notti ho paura. Prego a bassa voce nella mia piccola casa. A quest’ora della notte mio padre si è già svegliato e forse piange per me, per questo suo figlio che ha i giorni contati. Me lo immagino immobile e grosso sul suo letto, con gli occhi spalancati e la canottiera sollevata sulla pancia.
Mi piacerebbe se la morte fosse un luogo raggiungibile in macchina. Mio padre mi ci porterebbe con la sua Ford e nel tragitto parleremmo normalmente, come abbiamo sempre fatto. Una volta lì, prima di spingermi nel burrone, mi abbraccerebbe e sentirei per l’ultima volta il suo odore forte di terra e di sudore –il suo odore di cavallo.
Poi mi spingerebbe urlando, urlando come un cavallo al quale stiano strappando gli occhi dalla testa.
(p.13)

da "lago negro" di Andrea Di Consoli
L'Ancora del mediterraneo, Napoli 2005
(in alto, particolare di copertina di Stefano Ricci)

ANDREA DI CONSOLI (è nato a Zurigo da genitori lucani nel 1976 e vive a Roma). Ha il taglio della prosa poetica illuminante sulle cose, questo libro di racconti di Andrea di Consoli. Venti storie sul Sud, fatte di sguardi e viaggi nella memoria e nei cambiamenti sociali di un tempo e di un’epoca. Un tempo che raccoglie altri tempi, viaggi che racchiudono altri viaggi. Uno scavo nel dramma generazionale, nella crudeltà del quotidiano e degli affetti, dove narrazione e “pensiero riflessione” si annodano a maglie strette. Storie raccontate talvolta in prima, talvolta in terza persona con la forza della passione e della partecipazione, attraverso un linguaggio semplice e colloquiale, che si nutre di un tessuto che svela in profondità quella bellezza e quel dramma che si scambiano il giro in un istante. Ma è quando la narrazione scivola piacevolmente verso approdi "diartisti" (penso a testi come quello riportato sopra) che l’autore riesce a regalarci pagine di una bellezza davvero toccante, autentica e vera. Un libro poetico lago negro, fatto di sangue e carne, da cui emerge dirompente la solitudine e la nostalgia, il fallimento, il dolore che lacera e spacca, e che solo talvolta redime.
by Maria Pina Ciancio

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21.9.07

 

Alfonso Guida. Appunti su uno stanziamento 

[poesia -38]

...che poi abbia senso andarsene o restare
qui fra un luogo e un corpo che del luogo apre
finestre mamillari e del corpo altre
leggere sintonie curiose ai nervi
messi in questa nicchia abbandonata irta
di faggine e giocattoli di pioggia
lo spazio breve in realtà è più che altro e oltre
se stesso lunghissimo, un vuoto fatto
pneumaticamente come a raggiera
da un bulldozer, dosaggio perifrastico
del suo deponente ammaraggio sopra
banchine o rivierasche monotonie
la casa è stata svuotata e ora dorme
perchè ha capito che dentro può starci
solo il nero balbettante umanesimo
dai suoi stessi veli di frangia assolta
con pudore dal tortile avellano
seminudo inchiostro di conchiglia ora
messa contro l’orecchio per sentirne
la voce afosa, quel vociare baltico
dell’eremita appannato dal suo orlo
di macerazione carbonica e poi
la testa, l’immemore planare in due
...ti mette tristezza citare Gerico
non riesci a seguire fino alla fine
come invece vorresti un concerto jazz
per via del suono di tromba e nascondi
la sciarpa nel corrimano incompiuto
come quel girare su scale a chiocciola
dà il capogiro e il mondo entra veloce
liquido esterrefatto nel principio
di nausea che ti sale in gola, pezzi
d’intonaco raschiato contro i rami
del pino, le chiocciole-faro intorno
l’intrusione spontanea nel futuro
tra le salmodie dei ritardi in presa
netta, è lì, dove ti vien tolta l’aria
che senza respiro devi decidere.


*

...luce, alterata tensione nervosa
dell’insegna e del prologo accanito
contro lo spazio e goccia d’attenzione
sfilata da una fatica che addossa
la notte al fianco freddo e mette in tasca
le mani col portacenere in due ore
pulito e prosciugato come un resto
di segatura tra stipite e soglia
come il mondo amato a distanza eppure
negato nell’andare incontro all’acqua
fiorita del burrone. Qui toccando
lo spazio ogni materia lede i singoli
vuoti tra primo e secondo minuto
ledere perfino il graffio e il contorcersi
dell’orologio che vedo alto dietro
le case illustrate a portici spenti
nel cuscino di nebbia su cui passo.
...le forme aperte m’inseguono e portano
via lo scoglio, l’abbaiare consunto
del suo sfrigolamento. Camminare
come fosse scrivere quattro distici
sul camice bianco che opera in stanze
di allusione, nel drittofilo a greca
di un tavolo su cui viene lasciato
del pollo guasto e una vaschetta bianca
di marmellata. E’un togliere continuo
questa resistenza all’anonimato
dell’unanime. Una scodella piena
di stracci e il ritiro sociale visto
come valore del sangue distorto
cercando una sedia accanto al pattume
del cortile in cui viene acido il senso
del sudore, le gocce traslocate
fratturando gli scalini, sbrecciando
la febbre del cibo sul cui orlo gira
nera come un filatterio la prima
mosca del mattino, sorella mosca
battuta dal tovagliolo ghiaioso
che stride, ruota sorda ai tasti freddi
di un pianoforte astratto, aereo, sorpreso.
...la timidezza roca e fulminata
dei morti passa per queste vie buone
fra desertici battelli in cui a bolgia
si schiude l’inezia dell’usurante
sventolio dei surrogati cosparsi
di barbariche strie d’impastatrici
qui nel fondo dove non so affrettarmi
per sfuggire e ritrovare il fischiettio
dei ligustri di quand’ero bambino
tolto ai vivi e al mondo salvato, solo
primo uomo dopo la morte dell’aria.


Versi inediti di Alfonso Guida, da "Appunti su uno stanziamento"
San Mauro Forte, aprile 2007

ALFONSO GUIDA (San Mauro Forte, Matera 1973) “Appunti su uno stanziamento” è un lungo poemetto, scritto nell’aprile del 2007 e ancora inedito. Si compone di poesie scritte in endecasillabi "sui margini scaleni di un verbo doloroso che ancora trattiene” (a. guida). Un linguaggio complesso e interiore, magmatico, ma lucido e consapevole caratterizza questi versi articolati su più livelli di lettura: i viaggi della mente, lo spazio fisico, il senso dell’isolamento, il dolore, la solitudine errante.
Siamo di fronte a un verso strutturato, fatto di pieni e vuoti, di lontananze e vicinanze, di passato e presente (l’intrusione spontanea nel futuro/ tra le salmodie dei ritardi in presa netta) di vita e morte; un verso che tende al superamento dell’orizzonte emotivo individuale e che conduce alla sperimentazione di un percorso dialettico ampio e articolato, aperto a una serie di possibilità di sdoppiamento della voce.
Una poesia caleidoscopica e “frammentaria” –nonostante l’apparente unitarietà e compattezza strutturale- che si dà un ordine e lo distrugge immediatamente, senza titoli e senza punteggiatura, uno scavo della lingua nella lingua, alla ricerca di cifre che possano riscrivere la vita. Un prodigio della creazione.
Altri versi di Alfonso Guida su LucaniArt Voci.
by Maria Pina Ciancio

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2.9.07

 

Mariolina Venezia. Mille anni che sto qui 

[narrativa -11]



In quel pomeriggio di marzo del 1861 che la storia rese famoso per altri motivi, Concetta partoriva senza la levatrice. Cumma Rachele, la mammana che aveva fatto nascere tutti i bambini di Grottole e molti altri ne aveva spediti al creatore con gli infusi di prezzemolo e il ferro da calza, era ormai troppo vecchia per esercitare e si scomodava solo nei casi disperati.
Concetta istruiva le figlie fra un grido e l’altro, perché ormai sapeva a memoria come comportarsi, ma questa volta la cosa si presentava difficile perché il parto era podalico. A forza di spingere, Costanza le aveva ridotto la pancia tutta un livido, e Albina, che non perdeva occasione per dare addosso alla sorella, glielo stava rinfacciando dicendole che era tutta colpa sua se le cose non stavano andando come si deve. Licandra, in mezzo alle grida della madre e agli strilli delle sorelle, aveva sentito uno strano vocio sotto casa. Il suo primo pensiero andò ai briganti, delle cui gesta, nel bene e nel male si parlava dappertutto. Si affacciò emozionata, perché in cuor suo stava dalla loro parte. Appena informata dell’accaduto era scesa nel magazzino dove aveva potuto verificare l’ineluttabile gravità dell’accaduto. (p. 22)

Giuseppe Amodio, figlio di Rocco, era partito per le Americhe che era solo un ragazzo. A Napoli, dove era andato a prendere il bastimento, aveva visto il mare per la prima volta in vita sua. Appena arrivato davanti a quella immane massa d’acqua che si muoveva da tutte le parti mandando un odore mai sentito che si mescolava a quello del catrame delle navi, gli si erano rizzati tutti i peli del corpo e le gambe gli si erano piantate a terra come se all’improvviso avessero messo radici.
Avevano dovuto trascinarlo come un ciuco imbizzarrito, perché ormai erano già state pagate le centocinquanta lire del biglietto e le cento del sensale che ci volevano per partire, e l’avevano spinto per forza nella stiva. Aveva vomitato per tutto il tempo che era durata la traversata. Con le budella che gli si arrotolavano e lo stomaco che sobbalzava guardava dagli oblò quell’elemento nemico che dall’alba al tramonto si tingeva di sangue. (p.71)

“Mille anni che sto qui” di Mariolina Venezia
Collana I coralli
Giulio Einaudi Editore, 2006
(nella foto, ritaglio di copertina del libro)


MARIOLINA VENEZIA (è nata a Matera nel 1961 e attualmente vive a Roma). Un ritaglio di foto. Un sorriso accattivante e ammaliante e la serietà maestosa di una donna. Si contrappongono e si completano le due figure di copertina in bianco e nero sul nuovo libro di Mariolina Venezia Mille anni che sto qui. Un romanzo bello, che hai voglia di non finire e trattenere tra le mani. Una saga familiare ambientata nella Lucania più arcaica ed essenziale dell’entroterra, in cui si snodano le vicende secolari e straordinarie di una famiglia costellata di innumerevoli personaggi: Don Francesco, Concetta, Albina, Candida, Colino, Mimmo, Alba e tanti altri ancora… Padri, madri, figli, ma soprattutto donne, con i loro amori, i loro sogni, le loro delusioni, la loro caparbietà. Colpisce la capacità della scrittrice di tracciare e annodare destini, l’ironia e la levità quasi surreale nel raccontare le avversità della vita in questo romanzo corale, fatto di gioie e di sofferenze, di amori e tradimenti... Ma soprattutto colpisce la forza che Mariolina Venezia ha di svelare e raccontare in sottofondo la storia di un paese del Sud nei suoi risvolti umani, sociali e nei suoi cambiamenti epocali. Un libro magico, ambientato in una terra “senza tempo” che non ha nulla da invidiare alle saghe della tradizione letteraria sud-americana. Intenso e appassionato, dinamico e lirico.
(Romanzo vincitore del Premio Campiello 2007)
by Maria Pina Ciancio

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9.8.07

 

Assunta Finiguerra. Scurije 

[poesia -37]

Chi nasce già segnate da u destine
adda avé a che ffà sembe cu turmiende
da sole adda affrunduà tembeste e viénde
e ssope o cuarre i vinde fenì abbuole

Amelje e Anne, Marine e Ssilvje
quanne venghe preparateme nu liétte
nde pozze dorme tranguille e aspette
u juorne d'u giudizzje aunite a vvuje

da te Silvje surella mia de gògne
na chicchere m'è dà de latte càvede
e zzucchere de canne a cumeglià re ffalde
d'u spìrete ribbelle e crocia noste

Amelje Amelje febbrare curte e amare
grane de luglje t'ha favuciuate decise
apprùndeme na mande de narcise
e nu decotte de màleve p'a tosse

A tti Anne suduarje de re nnéglje
n'appse aggia cercà e nu quaderne
nde ije scrive ca u puassagge a l'Inferne
è cume chennòce sale cu nu mutidde

Figlje de mamma Russje, tu Marine
cirche pe mé a re stelle nu cuanneliére
e ndò squarce ormaje raspende d'u core
arde si ng'è angòre n'eche de vite

Chi nasce già segnata dal destino / sempre avrà a che fare con il tormento / da sola affronterà tempeste e venti / e sul carro dei vinti finirà il volo // Amelia e Anna, Marina e Sylvia / quando verrò preparatemi un letto / dove possa dormir tranquilla e aspetto / il giorno del giudizio insieme a voi // Da te Sylvia sorella mia di gogna / una chicchera vorrò di latte caldo / zucchero di canna a coprir le falde / dello spirito ribelle nostra croce // Amelia Amelia febbraro corto e amaro / grano di luglio ti falciò deciso / approntami una corte di narcisi / e un decotto di malva per la tosse // A te Anna sudario delle nebbie / un lapis chiederò e un quaderno / dov'io scriva che il passaggio all'Inferno / è come ingoiar sale con l'imbuto // Figlia di madre Russia, tu Marina / chiedi per me alle stelle un candelabro / e nello squarcio del cuore ormai scabro / brucia se c'è ancora eco di vita.

versi tratti da "Scurije" di Assunta Finiguerra
Ed. Lietocolle, 2005
ASSUNTA FINIGUERRA (nata a San Fele in provincia di Potenza, vive a Roma). E’ una poesia in dialetto lucano, dalla comunicabilità diretta e immediata quella di Scurije, legata al parlato, al respiro, alla cadenza della musica, al linguaggio della visione e del mito. Pulsa nelle vene e nelle tempie con l’ardore del fuoco sotto la cenere (“il fuoco dell’Inferno”), soffia e sbatte dentro l’otre scuro e cavo del petto, talvolta con ferocia corale, talvolta monocorde. Senza pudore, graffiando e scalfendo labirinti di solitudine, strappando fuori i demoni che la abitano. Contaminando. Identificando. Evocando. Plath, Cvetaeva, Achmatova, Rosselli “Amelia e Anna, Marina e Sylvia / quando verrò preparatemi un letto / che possa dormire tranquilla”.
Una poesia lavica, coraggiosa e forte “una estrema dichiarazione di vita alle porte della morte” –dichiara la poetessa di San Fele – “conforto al mio cuore in guerra per non avergli saputo dare il mondo”.

by Maria Pina Ciancio
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25.7.07

 

Luca Salvatore. Fumisteria ermeneutica 

[poesia -35]

A p p r e n d i s t a t o
Capite bene che chi ha mano lesta la usa
non solo per levarsi la lordura di dosso!
L.S.

Non trova posto un pagliaccio, il suo è fermento,
apprendistato. Occorre del talento, o quel che sia,
della crudeltà per sorprendere e dare godimento (1),
per abolire questa santa teologia e sana ortografia!


La sacca da sempre piegata ad una brama assetata
e al deliquio d’occhi viziati. Santificare l’ebbrezza,
che riduca questo basso mondo a dittatura spietata!
Il primo passo: nessuna morale di cui beneficiare…


Pensate davvero che di poesia possa farsi mestiere?
Per finire s’offra la visione e calici ampi da cui bere,
sbornia e sconcerto, un cuore da mettere alle strette,
in rime appena accennate e canti a sette della morte.
Vado verso il Nesso funebre e verso le cose stesse:


il solo passo! mi tengan in lor balia, in seno grosso.
Fate la predica agli ammassi che empion le rimesse,
a modo mio fingerò d’esser davvero… commosso!


1 […] la poesia è «la poesia assoluta, la poesia senza fede, la poesia senza speranza, la poesia fatta di parole che vengono messe insieme per affascinare» (I, 524). Dall’Introduzione, Gottfried Benn, Poesie Statiche, a cura di Giuliano Baioni, Giulio Einaudi Editore, p. XXXV.

***
A c q u e f o r t i

Nude insegne al neon scrutano
l’intero fruscio del mondo…
L.S. Rosemary Chicken Linguine


Le Caricature vengono ammassate in tronconi!
– Sia se dev’essere il Carnevale, le facce imbrattate,
il corteo con tutti i suoi saltimbanchi e buffoni.
Si cerca d’ingannare alla maniera dei più. Provate!


Arlecchino sempre chino sulla sedicesima parte
tira avanti la notte a forza di bere per star sveglio,
prepara la vendita al dettaglio, la rassegna d’arte.
Canta sospeso, non ha da fare niente di meglio.


Già due amori son morti. Già due sulla coscienza.
– Oggi m’accoppio su un bel tappeto doppio.
Ti verrò sopra. È il mio modo di godere pazienza!


È la mia data e i ministri lunari porteran fortuna.
– Ce n’andremo da amici fidati e sbronzi d’oppio
a goderci il gran spettacolo segreto sotto la luna.


***
P i e r r o t f u m i s t a
Per il compiersi della risolutezza suprema
serve una certa inclinazione all’ebbrezza
e soprattutto dei gran pasticci alla crema.
L.S.


Notte di gala e gran chiasso al ballo degli Impiccati
fan piroette e balzi quei roridi monconi ritorti
– do, mi, sol – allegri festanti ubriachi e sfangati
girano in tondo, davvero non pare sian morti!


Vino e cervello guasto canto, del lor Fattore la morte,
l’ultimo ideale sospiro e singhiozzo nel gozzo,
gancio pendente dal culo e braccia contratte ritorte:
“Io son Pierrot fumista di foriera morte scagnozzo!”

Solo professo l’ordire da Nesso e fianco d’Impero,
fiera farsa d’addobbo e inguantata sozzura,
insensato torpore in gola vibrante e sonoro.
Il mio è sarcasmo d’ubriaco, squarcio che non sutura.

Ho il cuore impotente all’amore e la bocca sporca.
Fantoccio e prodromo d’imbroglio a spessi catenacci
imbriglio la rima e faccio alla mia maniera scartafacci,
oltraggi al regale banchetto. Son pendaglio da forca!

Gran baccano di giga! Piegati ad un riposo straziante
quegli esuli ingrati tra piroette e balzi danno fondo
ai boccali, schiumando la bocca alla luna calante.
Non paion morti davvero girano e rigirano in tondo!

versi tratti Fumisteria ermeneutica di Luca Salvatore
Collana I lapislazzuli, Joker 2006


LUCA SALVATORE (è nato e vive a Potenza, nel 1978). E’ un libro dalla struttura solida e complessa Fumisteria ermeneutica e dalla lingua modulata su livelli tonali che si aprono a ventaglio su molteplici chiavi di lettura. Un libro per certi versi “duro”, “contro” che interpreta verità e finzione, attraverso la metafora del teatro e delle maschere.
“Benvenuti, pravi, alla fumisteria ermeneutica” recita l’autore in prima pagina “lasciate voi … ogni spettanza e bardata montura”.
E fin dalle prime pagine, nel semibuio della “scena”, cominciano ad apparire strane manifestazioni figurali, allucinanti presenze. Sono le maschere errabonde di Colombina, Arlecchino, Pierrot, Policinella… nel tentativo di interpretare se stesse -le loro verità!- e le loro “scenette” migliori. Uno spettacolo che si anima da dentro sotto fasci di luna e biancori di stelle.
Il copione che recitano aspetta voci e sguardi... forse quelli di uno spettatore incantato o di un bambino, di un poeta del nulla, ma “non trova posto un pagliaccio, il suo è fermento/ apprendistato”,nell’ansa degli spalti spiritelli scalzi danzano a fiera/ sanno che tutto recede e niente resta dai compendi,/ incuranti di tutto, al tempo che passa calan la visiera!”. "Fumisteria ermeneutica" è libro dagli accenti ruvidi e forti, a tratti irriverente, sicuramente da leggere e da rileggere, come è stato già detto, in cui non manca il coraggio della parola e un sano risvolto di ironia. Un lavoro, infine, in cui l’autore attraverso la metafora delle maschere, ci restituisce una poesia nel suo valore di segno puro e nell’autonomia del significante.
by Maria Pina Ciancio

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16.7.07

 

Teresa Armenti. Quotidiana/mente 

[poesia -34]

"Se fossi qui presente / la casa si riempirebbe
di strilli d'amore / e del terrazzo in fiore" (T.A.)

Nella mia nuova casa

I lampadari dell’ingresso?
Quelli son nati storti:
Uno pende a destra,
l’altro a sinistra.
Li faccio raddrizzare
ma non ci si riesce,
ritornan sempre come prima.
Vogliono farmi un po’ di compagnia.
La porta del bagno fa un rumore tremendo;
è facile capirlo:
è stata messa storta.
E il box della doccia?
Anch’esso un po’ di sguincio.
La chiave del portone
si gira al contrario.
E’ inutile dirlo:
la serratura è stata messa storta.

I quadri sono pendenti e con chiodi evidenti.
I tappeti sono obliqui.
Lo sportello in cucina
si storce in giù quando lo apri.
Il caminetto ha due lati obliqui.
E’ proprio uguale a me
quando cammino.
La porta della mia stanza da letto
per la furia del vento
ha il legno che fuoriesce.
Anche i dolci che preparo
vengono storti e con la gobba.
I cesti che ha fatto mio padre
usati per portariviste
tendono a torcersi.
E il cofano della legna?
Anch’esso non sta dritto.

Ci mancava il cane del mio vicino.
Cadendo s’è azzoppato
e quando mi vede
dimena la coda
e mi viene incontro
con la sua zampa rotta.

Io pure mi avvicino
col mio passo incerto
e l’accarezzo a lungo.

Le cose più vicine
per parlarmi d’amore
assumono anche loro
la mia posizione.

Sono circondata
d’affetto a dismisura.


versi tratti da "Quotidiana/mente" di Teresa Armenti
Romeo Porfidio Editore, Moliterno (PZ)

TERESA ARMENTI (è nata a Potenza e vive a Castelsaraceno in provincia di Potenza). Da una rilettura di Quotidiana/mente (1993) vi propongo questo bellissimo testo poetico di Teresa “La mia nuova casa” in cui la poesia torna ad essere una emanazione diretta del quotidiano, una estensione dell'uomo come essere vivente e pensante. C’è in questi versi la ricerca della poeticità del semplice, del non sublime, un raccontare caratterizzato da uno stile ironico e colloquiale, lontano da ogni sentimentalismo e da ogni retorica. Il messaggio è multiforme, ma è nel quotidiano della casa, negli oggetti di ogni giorno, che la poetessa riconosce e riscopre piccole verità, in un gioco costante di rimandi e associazioni di senso. Una levità giocosa e accogliente, che sottende la consapevole amarezza della solitudine e dell'incomunicabilità "sono circondata/ d'affetto a dismisura", ma anche il bisogno tutto umano di voler ristabilire il contatto spezzato con la vita, attraverso la parola e la sua vasta catena di significati ironici e simbolici.
by Maria Pina Ciancio

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1.7.07

 

Vito Viglioglia. Del silenzio e del fuoco 

[poesia -33]
Emersione
Di perle pallide, bagnate, sui ruvidi seni dell’ignoto,
s’induriscono come alghe al sole i capezzoli dell’incomprensione.

Immaginazioni,
come spirali sul ventre d’amore mi riconducono al colore.

***

Sono i viaggi parlati.
Sono i percorsi fantastici.
Dissonanze dello speaker nella stazione.

Dove sgorga il senso.
Dove i crocifissi suonano.
Dove sarà domani?

***

Il mio amore scivola nel fosso.
Il fondo è di niente.
Pensiero il mio.
Contro pensiero.

Il vento fra i rami come brezza che manca.
Le lune con i tacchi a spillo,
le lacrime rotte,
il tutto è in me come turbolenza.

***

Questo è il male che mi dai:
le tue parole vane,
il senso del mio amore che lascio svanire nella vita,
fra le cose che, mirabili,
semplicemente esistono.

Dio,
il tuo amore
e il cielo delle nuvole
mi hanno preso per mano fino al tramonto
per poi cedermi in sposo alla notte.

Palpebre di vuoto infuocato
Chiudono i miei occhi,
vedrà l’anima senza amore fatale.
Sempre berrò l’unico senso svanito.
Mai saprò vestirmi come in passato,
e chiuso me ne andrò sporco e sentirò i suoni della notte,
i tuoi suoni, Dio che mi allontani.


***

La fine è uno scalpo
Senza consolazione.
Rumore primordiale.
Frastuono.
Profuma di margherite che non ci sono.
Mi ami.
Sei andata via,
ma resti.

***


Velame

Rumori della notte,
nella musica c’è l’aria perenne
di chi si sveglia
con il grano tra gli occhi.
Sapore della carne, del movimento d’onda
che sovrasta.
Com’è fresca l’acqua senza solitudine
di volo.

versi tratti "Dal silenzio e dal fuoco” di Vito Viglioglia
stampato da S.t.e.s. Potenza, 2004
(immagine di Ettore Spalletti)


VITO VIGLIOGLIA (è nato a Melfi, studia Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli). "Del silenzio e del fuoco" è un’opera interessante, si legge in una successione delicata e ben tramata con un certo gusto per la domanda pronunciata e l’affermazione che attesta le tante, dolorose verità rifuggite per necessità d’inganno nel nostro percorso di vita. Anche di questo parla Viglioglia, di tutte le illusioni e dello svuotarsi dei sensi che portano allo smarrimento di sè, un paradosso che pure serve allo stesso disvelamento della verità ontologica, benché non appaia nella sua tormentata soluzione ma nella sua inevitabile comparsa. L’itinerario si svolge tra puntelli simbolici e reali appartenenti soprattutto alla natura; il silenzio e il fuoco stessi lo sono, aderenti ad un luogo, il Vulture, e ad uno stato di isolamento naturale e ricercato, in cui si richiama in modo costante e ossessivo Dio, onnipresente e incessante nella funzione Padre di amore assoluto e severo. In tutta l’opera sembra premere il fuoco dal basso del vulcano spento ma non morto in una tensione vertiginosa e condotta, così come il silenzio segna un perimetro di ricerca che potrebbe tradire all’improvviso la scoperta, la traccia, la morte che però “non è la fine ma l’attesa di una speranza”. Una poesia che s’appresta ad essere matura, particolarmente delicata e composita nell’intensità delle immagini, semplicemente sospesa in se stessa e nel tempo in cui si compie.

by Maria Luigia Iannotti

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17.6.07

 

Domenico Cipriano. Il continente perso 

[poesia -32]

Cercasi Conza N.I.

Dov’è la nostra storia
fatta di sassi, di volti anziani
vicini a portali di pietra.
Dov’è quella piazza popolata
da incoscienti sentimenti
coperti di neve,
come il vecchio campanile
che suonò per ultimo
quel giorno.

Dov’è il sogno
sul futuro inerte
che osavamo sfiorare dalle grate
guardando giù nella valle.
E quel bar
dove ritrovavi gli amici
che bambini
scazzottavano per gioco...

Cerco tutto questo
nel labirinto costruito
senz’anima
la New York dei poveri
il villaggio turistico del progresso
senza vita:
senza il permesso della Storia.

(14 settembre 1995)

*

Abbiate rispetto
di questi luoghi
dove la morte è illesa.
Amate il silenzio
del vento abbandonato
sconfitto e non arreso.

Dal Belvedere Belgio scruto
viadotti di periferia
rumorosi, sordi
ai richiami del vulcano
in sottosuolo, si sveglia
quando l’ombra cambia
coi rilessi della luna
e prega alle tenebre il perdono.

Tutto intorno sono pietre
congelate dalle incurie
si preparano a domani
per nuovi scavi impuri.

(Conza vecchia, 29 agosto 1998)

versi tratti da Domenico Cipriano, Il continente perso - Fermenti, Roma 2000
(Domenico Cipriano - foto di Eric Toccaceli)
DOMENICO CIPRIANO (è nato a Guardia Dei Lombardi nel 1970 e attualmente vive a Monteforte Irpino). Le due liriche “Cercasi Conza n. 1” e “Abbiate rispetto”, fanno parte della sezione Terra a novembre de "Il continente perso", una raccolta poetica dal linguaggio autentico e dalle trasparenze metaforiche, che si lega intimamente alla verità dell’esperienza e del vissuto.
E’ una poesia degli esterni quella che emerge in questi versi di Domenico Cipriano, dei paesi e delle comunità del nostro Sud, che diventano corpo, respiro e spazio dilatato di un viaggio in cui si cerca il prima e il dopo, ciò che è stato e ciò che era: alle pietre e ai ruderi si contrappongono scavi e nuove costruzioni, al silenzio i viadotti rumorosi costruiti “senza il permesso della Storia” e
in nome di quale progresso, si chiede il poeta? Ecco allora emergere forte una voce dialogante all’interno con la storia, all’esterno con noi stessi, in una geometria di silenzi e assenze, che ci restituisce la sacralità di spazi e luoghi, accarezzati col pudore degli occhi e delle parole
by Maria Pina Ciancio

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26.5.07

 

Beppe Salvia. Un solitario amore 

[poesia -31]

Un solitario amore
Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
equisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più
***
A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
***
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.
M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.
versi tratti da "Un solitario amore" di Beppe Salvia
Fandango Libri, 2006
BEPPE SALVIA (è nato a Potenza il 2 ottobre 1954 ed è scomparso prematuramente a Roma il 6 aprile del 1972). Un solitario amore è l'antologia poetica pubblicata da Fandango Editrice che a circa venti anni dalla morte del poeta raccoglie quasi per intero la sua produzione letteraria, composta da poesie inedite e tre raccolte pubblicate postume: Estate di Elisa Sansovino (Quaderni di Prato Pagano, Il Melograno-Abete Edizioni, 1985), Cuore (Cieli celesti, Rotundo, 1988), Elemosine Eleusine (Edizioni della Cometa, 1989). Quella di Beppe Salvia è una poesia giovane, ma che racchiude in quel dire compiuto chiaro e talvolta lieve, tutta la drammatica caducità e finitezza dell'esistenza. "La sua poesia -scrive Zanzotto- ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di riprendere contatto con il cuore del mondo". Dietro ai suoi versi così disarmanti e ingenui, il riflesso di un "solitario" esistere, di un dolore "per le cose sognate", di una realtà vuota "di chimere", che come ha già detto qualcuno, forse "l'anima non può sostenere".
Su Radio3 Fahrenheit una poesia che Silvia Bre ha dedicato a Beppe Salvia.
by Maria Pina Ciancio

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13.5.07

 

Cinzia Zungolo. Sotto questa cenere 

[narrativa -9]



Il tratto che unisce passaggio a livello e incrocio dalla cartiera è alberi d'olivo, legati da due corde di muretti in pietra a secco. Le distesa, chilometri e chilometri di piante, è tagliata da una vena di catrame, la strada che stavano percorrendo. Brecciame, una cunetta, il prato dove posano i primi alberi, infine il grosso delle piante, sul drappo di reti di arancio, per la pesca delle olive quando è stagione. Gli oliveti sono d'africa, colore di tribù. Siedono in cinque o sei sui circoli di pietre e goodyear, dritte le donne, gli alberi contorti, capelli attorcigliati in code tortili e nerissime, i bulbi oculari giallastri e turgidi, due seni sulla faccia.
Stavano tagliando dritto, ora un proiettile di auto brucia contro il muro della cartiera dismessa. Le donne si sono voltate al botto. L'altra macchina ha sbandato, prima di affondare nella cunetta, il vetro impazzito in una ragnatela. Una figura curva è scappata in mezzo agli alberi e subito si è persa. Immobile, dallo scranno di collina, anche la città piccola ha visto.
Sono arrivato a martedì, seduto dove sono seduto, al bar dell'ospedale. Ieri era diverso. Ieri ero in ufficio, seduto come adesso, un piano di formica uguale, fettucce di spazi liberi e polvere davanti, c'è la tastiera, c'è il computer, ci sono le pile di fascicoli, c'è il tondo vuot intorno la bicchiere del Campari che ha un bordo di limore infilzato e gocciolante, passa il collega, sembra tirare dritto ai fatti suoi, invece torna indietro, si china, lo guarda, lo tira via con il pollice e l'indice, lo infila tra i denti. Succhiando va a chiudersi nella sua stanza. Dopo un pò fischietta. Si vede che l'ha sputato dentro il cestino, nel frattempo. Anche l'altro ieri era diverso. Domenica. (...)
(incipit del romanzo)
da "Sotto questa cenere" di Cinzia Zungolo
Collana "Tempora", Dario Flaccovio Editore, 2005
CINZIA ZUNGOLO (è nata nel 1963 a Potenza, attualmente vive e lavora a Verona). E’ un romanzo che viene dalla poesia “Sotto questa cenere” dallo stile pungente, brillantemente metaforico e dall’ampio ventaglio lessicale, illuminante e aperto a una moltitudine di significati. L’architettura del romanzo, oltre 400 pagine è complessa, tre storie si snodano parallele tra il celato e il non detto, si sfiorano, si riconoscono per assonanza talvolta, o associazione di senso. Quella del protagonista e Martina, di Gioia “zoppo fallito” e sua moglie Maria, della banda di Toro, Vito, Olindo, Recchia e gli altri. Tutti personaggi, uomini e donne in movimento verso qualcosa o qualcuno, al tempo stesso vittime e carnefici. Tutti sotto questa “cenere”. Tutti irrimediabilmente falliti e cronaca da giornali. Un romanzo difficile, poetico e spietato questo della Zungolo, stimolante per quello stile sfuggente e quella realtà solo apparentemente sfiorata da una scrittura sincopata che spezza continuamente il senso, spaesandolo, dislocarlo nella pagina in un'armonia di chiari e scuri e di ritmi che catturano e disorientano. “Nello scrivere mi faccio portare dal ritmo, dai suoni –dichiara l’autrice in una intervista- il lavoro sulla scrittura è per me almeno tanto indispensabile quanto, per uno scultore, quello sui materiali".
by Maria Pina Ciancio

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6.5.07

 

Domenico Brancale. Frantoi di luce 

[poesia -30]

I corpi sono isole nella luce. La solitudine è pienezza.

Non solo io ma pure in cielo qualcosa si rifugia nel volo. Lo strascico d'un lampo.

Sorpreso dal respiro di un raggio me ne andavo con l'dea fissa di doverci morire ancora mille volte sulla faccia della terra, prima di serrare una volta per tutte i nervi degli occhi al laccio della morte.

Il fiato di diecimila cammelli ha sorpreso il mio risveglio. E' già l'ora del flagello del sole.

Nella controra mi sega le braccia questo maledetto respiro che si stagna nei pensieri.

Tutto si fa cuore. La natura delle cose è il motivo di un'altra vita. La palpitazione. Non è forse questo lo sterminato sentiero dove il nostro spirito assediato dal desiderio vaga e sferza il fascio dei nervi.

Un uomo prima o poi si deve capacitare della propria esistenza.

Le voci mi sono così vicine, si stringono nelle braccia per sorreggere le mani che affrontano il pensiero.

Se non ci fossi più qui dentro di me vorrei essere dappertutto.

da Frantoi di luce di Domenico Brancale Hervé Bordas
Libro d'artista a turatura limitata
MAVIDA, Reggio Emilia 2006

DOMENICO BRANCALE (è nato nel 1976 a S. Arcangelo in provincia di Potenza e attualmente vive a Bologna). "I corpi sono isole nella luce..." colpisce la fisicità delle parole di Domenico Brancale, fatta di sangue e nervi, dallo scatto rapido e dal verso breve, dove i corpi e la carne sono attraversati dalla luce, sventrati e disfatti, e dove il desiderio di un contatto, di penetrare e possederere ogni cosa è struggente, perchè la "carne finisce sempre nella carne". Frantoi di luce è un'opera in cui è pressochè assente il buio e la notte "il peso del sonno è quasi nullo, si dorme per sfinimento" e si snoda tutta nel tenero tenero flagello della "luce", in quella lotta tra la vita e il laccio della morte, tamburata a ritmi frenetici fino allo sfinimento dei sensi, fin quando è il cuore che "ha bisogno di fermarsi".
by Maria Pina Ciancio

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25.4.07

 

Vincenzo D'Alessio. Versi di lotta e di passione 

[poesia -29]

"Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti
Rocco Scotellaro, Pozzanghera nera

Il corno da caccia suona
nella muraglia di nebbia
cani affamati dal secolo in pena
cercano fiere nelle ombre
furtive dei faggi secolari.
Ci duole il petto a sentirli
narrare della fatica quale
unico pane di quei giorni
i sassi tra le foglie affiorano
aguzzi al passo veloce.
Risento il dolore salire
nella pianta del piede le orme
saranno la scia nemica
degli orchi che migrano in cerca
della notte. Siamo vivi ancora
per poco davanti ai politici
che in coro massacrano
la terra ognissanti cede
qualcosa alla morte. Siamo
avanti ai torti alle energie rubate
al sogno disperato del bene
alla fretta che viene a cancellare
l'ora di tregua il terrore
che vuole la sua parte. Avanti!
gridano le acque dal suolo
all'ira che ci porta i timori
nella fuga abbiamo perso il cuore.

da Versi di lotta e di passione di Vincenzo D'Alessio
Edizioni Gruppo Culturale "F. Guarini, Montoro 2006
(disegno di Rocco Grieco)
VINCENZO D'ALESSIO (è nato a Solofra in provincia di Avellino nel 1950 e attualmente vive a Montoro Inferiore- AV). "Il corno e la caccia" è un testo che fa parte della raccolta Versi di lotta e di passione, un libro di poesia a vocazione civile che si apre con un frammento introduttivo di Rocco Scotellaro. A stabilire l'orizzonte ci sono luoghi e tempi del "resistere" e il resistere s'iscrive nei conflitti che oppongono parti in lotta, rispetto alle quali occorre schierarsi, dividersi riconoscersi "abbiamo un cuore di terra/ che respira da tempo ingiustizia/ si affanna scoprendo nel dilemma/ il vivere e il morire". Nei suoi testi è instancabile la denuncia all'ingiustizia, all'ignoranza, all'ipocrisia, al silenzio, il richiamo a stare dalla parte dei deboli e/o dei poveri, quelli di oggi come quelli di ieri, nell'attesa che "la Storia / riporti la morta libertà alla memoria". Si tratta dunque di versi di azione e di passione, seppure a tratti un pò ruvidi, a metà strada tra memoria individuale e memoria collettiva, attraversati da quella parola "eterna" che sopravvive al male e ti "appare ricca di vita".
by Maria Pina Ciancio
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