30.7.06

 

LucaniArt Estate 2006 


Un caro saluto a tutti gli affezionati del nostro blog,
ci rivedremo a settembre con tante belle novità...
Mapi, Gigia e Ro

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23.7.06

 

Gennaro Grieco. Le Trentadue Ottave 

[poesia -11]

"Il morso a ritroso alla terra"

Non più, quando terra chiama cielo
e insieme
esangui si arrotolano, si accoppiano
-sappiamo una o più storie bastarde
[e i giochi della bestia-
e annullano l’etico spessore dell’ascesa,
lo spazio-tramite della speranza.
Non più.
Solo fatui fuocherelli ai crocicchi
o moine focomeliche in resistenza
: per senso del dovere –chissà!-
o semplicemente residui d’inerzia.
(Il fuoco, 18 aprile 1994)

***

Le altalene, le ingegnose altalene
d’atmosfere sognanti,
hanno oziose trame di consuetudine,
polvere di stelle arse in ricaduta.
Disdegnando la terra,
disegnano le ascese;
poi a ritroso le cancellano –senza
celesti ricavi da un cielo minimo
(Il dondo-lamento, 9 gennaio 1995)

***

Stiracchiarsi sul cordolo.
E mangiucchiarsi a spilluzzico le unghie.

Smollare gli essudati, i punti neri,
molare un silenzio, mortificarlo.
E per scene ripetute, fingendosi.
Abitare un silenzio
e con avidità mortificarlo.
E per scene ripetute, fingendosi.
(La gente, 26 giugno 1994)

***

Ma un brodo povero, appena pacifero
come la paglietta inclinata in fronte
-il sole è di un solstizio alquanto pieno
e il riscatto si trova in cose poche
come lavarsi le mani a una fonte.

O sarà sempre un alibi l’ortica
per disdegnare il nitore di un’acqua,
sminuirne il sollievo sulla ferita?

Neppur vale nascondersi la sete
se sul ventre della terra è il riflesso
e dall’esito dipende la quiete.
(Il riscatto, 21 giugno 1994)

***

Nella nominazione della morte
io ti vedo, e ne prendo le misure.
Per dove piace, da qualunque luogo
io, terra, voglio conoscerti tutta,
seguendo attento ogni piccolo solco.
Di te voglio impregnarmi pelle e scarpe
: per cogliere in contropiede la sorte
sapendo già i rigori della notte

(La tattica, 26 giugno 1994)

versi tratti da “Le trentadue Ottave” di Gennaro Grieco
Il fiore nella roccia (Collezione di Scritture) - Torino 2004

GENNARO GRIECO è nato nel 1953 a Rionero in Vulture e dal 1973 vive a Torino. Ha una lunga storia di “parole” e di “vita” la poesia di Gennaro Grieco. Trentadue ottave e altri otto versi variamente strutturati compongono la sua ultima silloge, un libro “esistenziale” e provocatorio per certi versi, in cui lo sguardo si staglia lucido e attento su approdi e consapevolezze e si affila tagliente e ironico su inganni e ingiustizie, per prenderne le misure, calcolarne distanze e vicinanze “senza distrarsi al bivio” con mano sapiente di artigiano (come è fortemente palese nei versi di La tattica). Accettazione, rifiuto, sberleffo, voglia di vivere e contaminarsi con e per le cose che contano, in Grieco tutto passa attraverso il rigore della ragione. Tutto è filtrato da un linguaggio magmatico e interiore, dallo scatto dinamico che procede per provocazioni, dubbi, domande senza risposta che innervano il tessuto poetico, e da una sintassi complessa, stilisticamente tradizionale e studiata, sia quando si muove su un piano più prosastico, sia quando il verso si distende aprendosi al gioco allitterato della rima, dell’assonanza e dell’ironia più giocosa e beffarda.
by Maria Pina Ciancio

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11.7.06

 

Christian Raimo. Ricorrenze 

[Narrativa -6]

“Che noi siamo il colloquio e la nebbia”

Nel 1986 mi trasferii con tutta la famiglia da Potenza a Roma. Fu uno degli ultimi viaggi che feci in macchina con mio padre e mia madre. E l’ultimo che feci con mio fratello. Era il 12 maggio ed era uno di quei giorni di transito, di inespressive atmosfere celesti, di odori incomprensibili nell’aria, di cui la vita dei paesi più sviluppati dell’Europa, del Nord America, della Russia occidentale, cominciava a essere sempre più piena. Ero seduto dietro nella macchina, e nonostante la lucidità eccessiva per la levataccia, nutrita per via endovenosa ad agitazione, fibre allertate e bevande calde, quello che elaboravo mentalmente in quei momenti era quasi assolutamente nulla. Registravo il percorso e il paesaggio, ma non capivo se dovessi tenere a mente un’immagine globale o qualche dettaglio o che cosa. Le insegne stradali indicavano ogni chilometro che passava, ogni paesello ci dava il benvenuto e ci diceva arrivederci un minuto dopo, ma quella forma essenziale di nostalgia cutanea che è tipica e forse necessaria in questi casi stava solo fermentando molto molto lentamente, e di lì a poco avrebbe assunto delle fogge così inaspettate che definirla nostalgia anche oggi può al massimo far venir fuori un sorriso brevissimo, e forse ancora, leggermente, indifeso.

Si scherza, Lucio mi ha telefonato ieri mattina e mi ha riassunto i motivi per cui vive: ci sono due grandi concerti a metà marzo, e allora bisogna informarsi, lo zelo e l’acribia necessitano, prepararsi per uscite all’alba, prima dell’alba, le tende, e le botte, e la lotta accanita per riuscire a prendere i biglietti. Occorre appropinquarsi all’estasi, già ora, mi ha detto. Ripetere a se stessi la gioia estatica delle note che sentiremo, bearci delle possibilità molteplici delle esecuzioni. Dirsi grandioso, grandioso, senza smettere, neanche nel sonno.

Il motivo per cui dovemmo trasferirci da Potenza a Roma stava tutto nella ghiandola pineale di mio padre. Nella ghiandola pineale, diceva lui, ci sono tutte le scelte su cui non hai controllo. Che devi fare e basta. E Roma, bisognava prendere e andare, prima partivamo e prima ci toglievamo il pensiero. Fatto così mio padre, dava poche spiegazioni anche a se stesso, come se fino a una certa età ne avesse dovute, e ora, a trentanove anni, ne fosse completamente esentato. Rispetto ai suoi amici, pochi, di Potenza, che erano uno lo specchio dell’altro, il suo traguardo personale, che condivideva solo con noi, era riuscire a distinguersi, far sì che anche il suo corpo, anche la sua pronuncia non avessero nulla più a che fare con quei posti in cui noi eravamo nati e stavamo crescendo. Per me piccolo, e forse anche per mio fratello, mio padre era una figura misteriosa, che tendeva ad avvolgere se stesso in una sorta di mito fatto in casa con le sue mani. Cercava di plasmarsi addosso la figura dell’eroe, del matto del villaggio, del patriota, del pirata, e inclinava in questo modo verso delle forme personalissime di idealismo.

Le pompe funebri, per mio padre, erano la vera missione dell’uomo. Aver cura dei morti, stare a contatto con il dolore e il disfacimento, con la morte che non si spiega, era la maniera migliore per avere a che fare con la verità. Questo aveva spiegato a me e mio fratello fin da quando eravamo bambini. Dovevamo stare in ufficio con lui. In attesa delle chiamate. Dovevamo passare lunghi pomeriggi, in questo stato innaturale, aspettando che qualcuno chiamasse per scongiurare la noia, e scongiurando che non chiamasse nessuno, tentando di prendere confidenza con la noia. In questa attesa riscaldata da una stufa elettrica che mio padre voleva che tenessimo sempre al massimo, mio fratello guardava me che stavo lì a guardare un televisorino in bianco e nero dove si riuscivano a prendere solo i primi due canali della Rai. E io guardavo lui che faceva i compiti per tutti e due. L’agenzia, anche nel ricordo di bambino, era un posto piccolo, diciotto, venti metri quadri al massimo, e c’era spazio per una lampada sola messa su una scrivania striminzita attaccata al muro. Così ci eravamo divisi i turni per studiare, e cominciava lui per primo; ma alla fine, visto che i compiti che ci toccavano erano gli stessi, io mi adattavo a quello che aveva scritto lui, temi compresi: quello che riuscivo a fare era soltanto una rielaborazione neanche troppo impegnata di quello che mio fratello mi lasciava in bella vista sulla scrivania. Era una specie di accordo sottinteso o di abitudine o di amore fraterno.

da "Latte" di Christian Raimo
Minimum Fax, 2001

CRISTIAN RAIMO (Roma, 1975). In “Ricorrenze” come del resto in tutti i racconti di Raimo il presente dialoga con la memoria e sembra quasi interrogarla in un tempo costante di ricerca di senso, significati, risposte… I racconti di Raimo ricchi di immagini, fatti, dialoghi, pensieri e tempi vivono nella coerenza lucida di un presente parlato e pensato insieme, pervaso da un senso di incompiutezza esistenziale che trova di volta in volta soluzioni temporanee anche se il tutto si svolge con modalità che non sembrano mai assumere i connotati tragici…Un bel libro Latte che risale al 2001 con cui Raimo consulente della collana Nichel della Minimum Fax si è consegnato per la prima volta al pubblico, dove non si risparmia e ci racconta di una generazione di giovani complessa che sembra voler contraddire i tanti stereotipi degli ultimi anni. Non è lucano Raimo e non so quanto ci sia di vero sulla fuga da Potenza che narra nel primo racconto, ma di certo appare verosimile il bisogno di un adolescente di desiderare altre mete e altri spazi al di là del resistente provincialismo per affermare la sua voglia di libertà, un desiderio confermato dai tanti racconti della raccolta che non passa mai attraverso il trionfalismo dei personaggi narrati ma sempre rigorosamente attraverso le fragilità e i complessi tipici dei giovani di oggi che lo scrittore fa rivivere in essi… Un libro che appassiona per schiettezza e tenerezza, che affascina per la rara riflessività a cui invita quando quasi senza accorgercene ci troviamo a vagare insoddisfatti e curiosi sul terreno di una trasposizione della realtà fra le più autentiche e probabili prodotte negli ultimi anni da un giovane…
by Maria Luigia Iannotti

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2.7.06

 

Lorenzo Caschetta. Carta annonaria 

[poesia -10]

Buio di Lucania
a Rocco Scotellaro


Il buio è questo lupo immenso
che annusa chino
sui monti i boschi il cuore e sulla terra intera,
che annusa dal principio
per primo.

Fra il Vulture e il Pollino loricato
assedia la sua preda di luce,
siano bagliori dagli abitatio
fari d’auto lampi sbriciolati.

E mi sento in cammino
un orologio nel taschino di Lucania
oltre l’ora del cane.

E mi distraggo al bivio
se per contrade d’angoscia
o per un tratto non battuto d’esser vivo.


Lepre

I tuoi occhi lepri sulla neve
aperti a fior di dubbio
chiedono un dono non un’esca.

Vorrei portarti un fiore certo
un gesto solo che mi sopravviva
se non vorrai fermarti o se vorrai
che mi descriva ai tuoi pensieri.

Qualcosa come l’acqua quando ghiaccia
nell’esattezza del cristallo.


Distanza

Addenti un frutto nel suo gusto esatto
l’oliva sa di oliva senza dubbio
non vira dalle sue promesse.
A giudicare da questa presenza illune
Non avvicineresti mai la bocca alla mia faccia
di pane impolverato, d’acqua rugginosa.
Ti ritrarresti invece con disgusto
e un’elemosina di scusa.
Non voglio risalire la tua stima
altro dalla foggia che mi danno,
trattieni pure fame e sete
dallo stereotipo cui ti rivolgi.


Il parassita

lo comodo figlio di un vitto e alloggio
voglio essere gettato sulla strada
come la piccola medusa di uno sputo,
ma nessuno mi caccerà di casa
neppure li tenterà
la mia vita ingiustificata.
Se procuro loro una tosse dolce
cucino silenzio e fumo
eterno rovescio della medaglia
non li stanca il mio nome il mio sangue
non li sfianca l'affetto
non li ammanta la rabbia.

versi tratti da “Carta annonaria” di Lorenzo Caschetta

LietoColle Editrice, 2005
(foto di Lorenzo Caschetta)

LORENZO CASCHETTA (Modena, 1975) Non è lucano questo giovanissimo poeta alla prima sua pubblicazione, ma nei suoi versi c’è una traccia filigranata della nostra Lucania. Terra forse non solo letta e studiata, ma anche attraversata e vissuta. Il riferimento è forte nella poesia “Buio di Lucania” sia perchè dedicata al poeta contadino di Tricarico Rocco Scotellaro, sia per la ricorrenza dei tòpos, il buio, i lupi, le contrade e per i richiami toponomastici del Pollino e del Vulture nella seconda strofa. La poesia è stata pubblicata su Lo Specchio della Stampa nel gennaio del 2000, successivamente è stata inserita nel volume Carta Annonaria silloge vincitrice del "Concorso LietoColle Opera Prima 2004". Della sua poetica Maurizio Cucchi scrive: “Legato all’esempio di Scotellaro ne riprende le risorse di energia dirompente all’interno di forme controllate e composte, che sanno d’improvviso rivelare momenti di asprezza”. Caschetta è un poeta giovane, ma già dai risvolti maturi, dal linguaggio personalissimo e dai versi autonomi, caratterizzati da un lirismo senza abbandono e da una concezione anche civile della poesia, per quell’incalzare, dirompere, provocare su tematiche che fanno riferimento al sociale.
by Maria Pina Ciancio

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