25.6.06

 

Mauro Savino. Benedizione selvaggia 

[poesia -9]


VISIONE

Conosco le lande desolate
dove i corvi straziano le spalle dei viandanti.
Dove il sole è imbalsamato.
Dove le labbra si torcono d’indifferenza
e nelle orecchie sibilano notti mostruose.
Dove le gambe sono deboli.
Dove, lontano da tutto
non resta che impazzire
per tutte le Bellezze sprecate.


RESURREZIONE

Siete mai morti nel fragore delle strade?
Quando i palazzi spariscono
in burroni di catrame
insieme alle nostre miserie?
E le musiche che anglicano l’anima
e l’impasto delle risate infantili
e gli uccelli-piuma
e tutte le crudeltà eclissano
e ogni vita è nuova.


E SOGNAMMO…

E sognammo i nostri piccoli mondi
e cerchi da rubare all’infanzia
e risate di mezzanotte.

E gli occhi a cui raccontare
di fiori notturni,
di biciclette tra le nuvole,
quando una malinconia di seta
fa brillare tutto.

E le strade infinite
dei ballerini di luna.

E le mani di pioggia.

E i gabbiani.

Versi tratti da "Benedizione selvaggia" di Mauro Savino
(Collana Nuove Voci) Edizioni Il Filo, Roma 2005


MAURO SAVINO (Tricarico, 1976). Sono versi molto originali quelli che compongono l’ultima raccolta Benedizione selvaggia di Mauro Savino, aggressivi, brucianti e coraggiosi. Potremmo definirli “versi della negatività” ma tutt’altro che negativi, persuasi come sono dal bisogno di assecondare un destino che investe e scruta il fondo di ogni male fino a fondersi con esso e a far scomparire i contorni del tempo, della storia, del presente. Condannando il verso alla disgregazione di ogni cosa che vive, che respira e che vorrebbe divenire volto, nome… Non sono versi nati per aggraziare se stessi e il mondo, essi assecondano un processo di erosione dei dogmi abusati e trasudano un dinamismo esistenziale, tanto da apparire quasi catartici, manifestando l’ardore di un forse inconsapevole desiderio di futuro, di superamento degli inganni ideologici e dei vuoti di identità da sostanziare attraverso la pratica spietata dell’identificazione con ciò che è indefinito e doloroso, con ciò che va supposto, ricordato per esser fronteggiato e conosciuto come un male insospettabile, oscuro e sempre in agguato, pronto a colpire ad ogni angolo la mano curiosa e fragile di un poeta.

by
Maria Luigia Iannotti

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18.6.06

 

Leonardo Sinisgalli. L'albero bianco 

[Narrativa -5]

Quanto mi rimane di C* e dei primi lunghi pianti al passaggio dei carri, dietro le inferriate del cortile, vorrei dirvi in un soffio, il tempo di uno sbadiglio o di un fischio. Chi mi accompagnò nel primo viaggio non era mio padre.
Dentro la carrozza (che portava di agosto la neve nei sacchi, conservata come carbone nelle fosse coperte di neve marce: la stessa carrozza saliva sotto gli abeti, portava mia nonna a mille metri di altezza lungo la rotabile, i giorni delle grandi gite familiari in montagna, quando in casa non restavano neppure i servi, e venivano fin lassù coi canestri carichi di stoviglie), stretti dentro il mantice d’incerata, stavamo Silvestro ed io ai lati del parroco, che aveva ceduto alle insistenze delle nostre mamme e si offriva di accompagnarci in collegio la prima volta.
Con le tasche piene do confetti (avevo atteso un anno quel viaggio, era stato il mio incubo e dovevo crescere, convincere mia madre che poteva lasciarmi solo per un tempo che, in carrozza quella mattina, sentivo sarebbe durato tutta tutta la vita: non ero andato più a scuola, avevo perduto i miei compagni che s’erano sparsi per i campi e nelle fornaci, più grandi e con la sorte già così chiara, mentre io, io…) partimmo, attraversammo il fiume, ci allontanammo dal confine della provincia.
(Io dico qualche volta per celia che sono morto a nove anni, dico a voi amici che il ponte sull’Agri crollò un’ora dopo il nostro transito; mi convinco sempre più che tutto quanto mi è accaduto dopo di allora non mi appartiene, io sento di non aderire che con indifferenza al mio destino, alla spinta del vento, al verde al rosso. Io so che la morte arriva all’ora prescritta; non è un’ingiuria, non è un sopruso: io so di essere stato tradito per tutta la vita uscendo fuori dalle mie dolci mura, io che ero innamorato di carte e di stampe, ch’era nato senza appetiti, senza fiamme nella testa e volevo semplicemente perire dentro la mia aria. Forse siamo pochi a lamentarci di non saper più trovare una patria fuori dalle nostre colline).
Poi non ricordo più. Mi pare che i due ragazzi si svegliarono alle due ali della camerata. Io e Silvestro ci trovammo nelle ore di ricreazione ad asciugarci le lacrime con lo stesso fazzoletto, a spaccare le melagrane che avevamo portato dal paese. Non ci si vide più quando il gelo rese impraticabile il cortile. Ci incontravamo qualche volta in fila lungo i corridoi che portavano alla cappella. Seppi che era stato prescelto tra gli allievi della scuola di canto, che egli era uno dei piccoli serventi in camice bianco che reggevano i ceri per tutta la durata della messa, e che sarebbe andato via da C* per seguire il noviziato, come mi scrisse più tardi mia madre, ma senza conforto per me che non avevo ancora risposto alla voce del Signore. (pp. 37-39)

da "L’albero bianco" di Leonardo Sinisgalli
(a cura di Rosetta Maglione e Antonio Vaccaro)
Edizioni Osanna Venosa, 1999
(disegno di Rocco Grieco)


LEONARDO SINISGALLI (nato a Montemurro in Basilicata il 9 marzo 1908, è scomparso a Roma il 31 gennaio del 1981). Matematico, poeta, narratore, Leonardo Sinisgalli fu uomo sfaccettato e poliedrico che diede alle stampe oltre che numerosi libri di poesia, anche diversi libri in prosa. Alcune delle sue pagine più belle, tratte da Belliboschi, Un disegno di Scipione e altri racconti, Fiori pari, fiori dispari, sono state raccolte, dopo la sua scomparsa, in questo prezioso e agile volumetto edito da Osanna Venosa. Si tratta di scritti risalenti agli anni ’70 in cui l’autore affronta un’opera di scavo “alla ricerca del tempo perduto” nel tentativo di recupero della memoria, dell’infanzia, degli affetti familiari, di quella Lucania arcaica da cui si allontanò fanciullo per intraprendere gli studi di formazione fuori regione. Sono pagine di una bellezza mozzafiato per la loro autenticità. Una scrittura diaristica e autobiografica, dal taglio introspettivo e di scavo psicologico che si intreccia a uno spaccato di vita reale e a piccoli gesti della quotidianità. Pagine da cui emergono i sui sentimenti, i sogni e le attese di quand’era ragazzo, i silenzi già dolorosi della vita, i gesti persi e mai più ritrovati. Una prosa limpida, lineare e al tempo stessa incisiva quella sinisgalliana, che punta decisamente oltre l’apparenza delle cose, per rivelarne quella sostanziale e spesso irrisolta, oscura ambiguità.
by Maria Pina Ciancio

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12.6.06

 

Rocco De Rosa. La mela malata 

[narrativa -4]

U
na luce intensa, di colore bianco, illumina la facciata del grande edificio sul pendio della montagna che sovrasta la Valle dell’Agri. E’ sera avanzata e le ombre nette vanno assumendo nel buio un volto umano; proiettano una dimensione di vita. La luce, emessa da alcuni riflettori, fa risaltare perfettamente il palazzo, sobrio e austero insieme. Un edificio costruito almeno quarant’anni fa, quando l’agricoltura aveva un altro senso nella vita dei paesini del Sud: era un’arte obbligata, un lavoro inevitabile per chi lo praticava. Non di rado fonte di miseria per braccianti ed operai; spesso motivo di ricchezza per i padroni che, a loro volta, mettevano a frutto la terra per non venir meno alla loro condizione sociale di proprietari.
La luca bianca dei riflettori fa risaltare anch’essa una condizione di netto predominio di cui il palazzo di campagna è espressione ancora oggi.

Si avverte il peso di un’aria stagnante. Non c’è una sola persona,tra quelle uscite dalla casa di campagna e tra gli stessi passanti, che si senta davvero a suo agio. La paura e il timore di finire nell’inchiesta dei magistrati sono come una maschera tremenda. Il gruppo delle persone uscite da quel palazzo rappresenta la sintesi del potere e della forza economica, ma anche l’espressione di certa politica con i suoi personaggi, i suoi ritmi e con regole ben precise. Quanto basta per sentirsi l’ombelico del mondo. Per questo influenza gli stati d’animo degli altri e condiziona un po’ tutto. I minuti scorrono. L’aspetto del cielo si fa sempre meno gradevole e le poche nubi contribuiscono a diffondere attesa e incertezza.

Uccio sale in fretta le scale, entra in un appartamento e chiama in una stanza Teo, con una gran fretta. Cerca di convincerlo a scendere giù e ad avere contatti con i lavoratori. Ma Teo non sembra disponibile. E’ intento a fare altro. Ha davanti a sé, stranamente, un bel cestino di mele. Alcune buone, altre cattive. Ne trova diverse con delle macchie abbastanza evidenti. Eppure le mele non sono marce, ma sono solamente malate, chissà perché. Teo non riesce a darsi una spiegazione. Vorrebbe buttarle via e lasciare nel cestino le poche buone. Invece decide di conservarle tutte, buone e cattive insieme. Le mele sono state raccolte nel frutteto del palazzotto che guarda il fiume Sciagura, dove cominciò quella mattina all’alba tutta la tragedia degli arresti e del carcere.
“Queste mele sono un segno della nostra vita. Non è possibile gettarle come si fa per le cose vecchie di cui vogliamo sbarazzarci a tutti i costi. Devo conservarle, soprattutto quelle cattive. Che in fon dei conti cattive non sono. Sono solo malate e testimoni di un tempo che è riuscito a rovinarle, con i suoi giuochi perversi e le sue malefatte… Il tempo di oggi così difficile e instabile. Così strano e minaccioso!”.

La mela malata di Rocco De Rosa
Iride Edizioni - Rubbettino Editore, 2005

ROCCO DE ROSA è nato e vive in Basilicata dove attualmente lavora. La mela malata è un romanzo affollato, è il caso di dire, da tantissimi personaggi, almeno nella prima parte: politici ambiziosi, imprenditori scaltri, donne ossessionate dal potere e dall’amore allo stesso tempo, giovani fermi al bivio del compromesso che poi sceglieranno la via del riscatto umile e crolleranno in tutta la loro ingenua fragilità sul finale, magistrati corrotti, uomini onesti che rimangono sulla scena nello sfondo in contrapposizione. Il romanzo è ambientato in questa terra e probabilmente prende spunto dai fatti della tangentopoli lucana ma si spinge ad analizzare a tutto raggio, anche nei sottili e drammatici risvolti psicologici dei protagonisti, un fenomeno molto più imponente che è quello di Mani Pulite, che ha modificato il volto e il costume di un intero paese. Una scrittura ancora più efficace quando diviene volutamente ripulsiva, sfrontata nei toni, ruvida. Credo che quello di De Rosa sia il romanzo delle nostre piccole storie malate, che incarna appieno il senso della nostra cultura materialista, il romanzo dell’uomo del nostro tempo sempre spinto sull’orlo della tentazione o credo sia semplicemente il romanzo dell’uomo…

by Maria Luigia Iannotti

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4.6.06

 

Giancarlo Tramutoli. Versi pure, grazie 

[poesia -8]

Da sempre
vivo nel presente
assente e silente
com’era mio padre
che faceva il detestabile
in casa e l’amabile
fuori e lo dico in rima:
meglio così
che son cresciuto prima.


Un toscano spento
in bocca ad un lucano
pure spento.
Torna la primavera
dopo l’ultima finta
e io mi dico addio
a Dio piacendo.
Mi saluto a salve
mi sputo addosso
e continuo a fare
ciò che posso


Cosa mi prende
non lo so
solo
in queste domeniche pomeriggio
qualcuno addirittura ti cerca
e tu sei in carcere
ma la colpa non è di nessuno
è la vita che si avvita
tu resti dietro il vetro
sempre più tetro
in questo assurdo teatro
io che il teatro
l’ho sempre detestato


Chiedetelo ai saggi e ai pazzi
se non è vero che vivo al di sopra
dei miei mezzi.
chiedetelo pure ai miei vicini.
vi diranno che vivo al di sopra
anche dei miei fini


E’ noto:
anch’io sono nato
senza essere interpellato.
Spero almeno da morto
di non farmi il torto
di non essermi consultato


Quest’anno ho scritto
solo sette poesie
(e con questa sono otto).
Cosa vuol dire?
Che di scrivere versi
mi sono rotto

da "Versi pure, grazie" di Giancarlo Tramutoli
Collana Occasioni a cura di Anna Grazia D'Oria
Ed. Manni, 2006


GIANCARLO TRAMUTOLI è nato nel 1956 a Potenza dove vive e lavora. Fa parte del filone giocoso e comico la poesia di Tramutoli, e anche questa nuova raccolta Versi pure, grazie fluttua tra concetti e immagini ironiche, autoironiche e affabulatrici che affondando le radici nella cronaca minuta della ritualità-gestualità quotidiana. Versi fatti di rime, assonanze, consonanze, passaggi di senso rapidi e fulminanti che stupiscono e spiazzano, ma che a una lettura più attenta, sottendono quello che è il dramma esistenziale dell’uomo moderno. La solitudine, il senso della morte, la precarietà umana, sono i temi di questa sua silloge a cui si affianca un rifiuto e una condanna diretta della poesia classica. Nessuna mediazione e nessuna conciliazione con il reale, i versi di Tramutoli -a voler rubare un’immagine cara all’autore- sono attraversati da un “guizzo vitale”, da un poetare libero, burlesco e a tratti beffardo.
by Maria Pina Ciancio

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